sabato 25 ottobre 2014

Lisbona e le sue forme

   Il sole. Ecco la prima cosa che mi viene in mente quando ripenso ai giorni a Lisbona, il sole. Anche se devo ammettere che i dislivelli hanno un gran potenziale nella classifica dei ricordi più impattanti. Lisbona è tanto, vecchio e nuovo insieme. È una città veloce come lo sono tutte le capitali, eppure sembra muoversi lentamente, con i vecchi tram che si arrampicano tra le viuzze ripide, che praticamente noi abbiamo sempre percorso a piedi.
   Il primo impatto non è stato così magico come ce lo aspettavamo, ma in effetti eravamo reduci da una città che ci ha rubato il cuore per convincerci a tornare a riprendercelo. La prima camminata, fortunatamente in discesa anche se per poco, ci circondava di palazzi moderni e altissimi, niente a che vedere con le piccole casine azzurre di Oporto.
   Ben presto, sempre grazie alla discesa, ci troviamo in una piazzetta, è più piacevole. Un lato è chiuso da un edificio piccolo ma tanto particolare da attirare la nostra attenzione. Ci entriamo. È una stazione, la Estação do Rossio, uno scheletro di metallo rosso all’interno crea la struttura, mentre l’esterno è caratterizzo da un rivestimento chiaro lavorato in basso rilievo sulla facciata principale, dove due arcate incrociate ti danno il benvenuto. Dopo una pausa gelato, il primo giorno a Lisbona continua con un viaggio verso la costa, il sole ci accompagna, così come tantissimi ragazzi che, interamente vestiti di nero, suonano il Fado e cantano delle canzoni tanto allegre da farci ballare per tutto il tempo.
   La tappa lucertole spiaggiate sui gradini del litorale è obbligatoria. Dopodichè, cominciamo la salita. Stradine incredibilmente ripide si susseguono fino a portarci alla Sé Catedral. Una cattedrale così diversa da quello a cui siamo abituati, così umile ma così suggestiva alla stesso tempo. Niente oro, niente sfarzo, solo pietra illuminata dalle finestre poste alla fine dell’abside.
   Una volta fuori ci accorgiamo che è già ora di cena e come per magia ci ritroviamo in un caffè sulla strada il cui menu ci aveva decisamente convinto. I piatti sono zuppa fredda di legumi, servita con pesto ed olio d’oliva, e baccalà con patate. La simpatia del proprietario ci convince che i portoghesi sono davvero bella gente, ed il pensiero è confermato dalle mini sfoglie ripiene di carne che ci vengono offerte a fine pasto. Quella cena resterà nella storia. La prima giornata si conclude con una passeggiata, ancora una volta in salita, che ci porta al Castelo de São Jorge, di cui però vediamo solo i cancelli chiusi.
   Il secondo giorno comincia prestissimo e ancora una volta è il sole che ci dà il buongiorno. Passeggiamo sul litorale, coi tanti monumenti che si affacciano sul mare. Il primo che vediamo è Padrão dos Descobrimentos (Monumento alle scoperte), una torre che si affaccia sul mare e che ha alla base i naviganti stessi che volgono lo sguardo verso l’orizzonte. La torre dà su una piazzetta la cui pavimentazione attira la nostra attenzione: si tratta del mondo, un enorme cartina rappresentante i continenti è al di sotto dei nostri piedi pronta ad essere esplorata dai tanti turisti eccitati.
   La nostra esplorazione ci porta invece alla seconda torre, un monumento più grande, un edificio, la Torre de Belém, posta quasi su un isolotto in mezzo all’acqua. I paesaggi che la circondano sono splendidi. Il fiume Tejo da una parte, i prati dall’altra, dove sono quasi certa di aver visto dei piccoli ulivi.
   Il pomeriggio, lo storico lascia lo spazio al nuovo. A partire dalla Gare do Oriente ci inoltriamo nella parte moderna della città, la zona interessata dalla Expo del 1998, in cui la parola chiave è evidentemente Architettura. La stazione è di Calatrava, il cui segno è visibilissimo nella copertura esterna, sorretta da delle sorta di alberi metallici che coprono tutta l’area dei binari. La parte sottostante, si sviluppa interamente in calcestruzzo, volutamente lasciato grezzo. Il linguaggio architettonico va lentamente modificandosi mentre attraversiamo la galleria commerciale che ci porta nel cuore della Expo.
    Anche il centro commerciale è minuziosamente studiato nei dettagli. La strutture metallica sorregge tramite delle travi arcuate un tetto a doppio vetro che, per evitare l’effetto serra, viene attraversato tra le due vetrate da acqua in continuo scorrimento. Una volta fuori dalla galleria lo spettacolo è bellissimo. I padiglioni dell’expo si trovano di fronte a noi, dietro di essi il fiume e la seggiovia, a sinistra la torre ed il ponte Vasco de Gama, a destra l’Oceanário.
   Ci spostiamo tra questi giganti all’interno dell’area chiamata Parque das Nações. Le costruzioni si sviluppano soprattutto in lunghezza, creando come dei passaggi e movimentando la passeggiata, grazie a coperture curvilinee, materiali diversi e  forme che riportano al tema della Expo, l’oceano. Lo sfondo è evidentemente un tributo a Vasco de Gama, in primis grazie al ponte strallato e, successivamente, alla Torre, la cui  forma ricorda la vela di una caravella, grazie ad una struttura metallica reticolare posta in verticale e conformata all’immagine di una vela modellata dal vento.
   Il padiglione del Portogallo, di Álvaro Siza, regala, grazie alla forma dettagliatamente studiata dall’architetto, un atmosfera affascinante. La costruzione crea un enorme portico, una gigantesca piazza, coperta da un foglio di calcestruzzo leggermente curvato e poggiato sui portici laterali marmorei. È tantissima la gente che sta dentro al padiglione, ci siamo anche noi, che dall’esterno percepiamo la costruzione come una sorta di cornice, una polaroid con all’interno lo sfondo mozzafiato dell’acqua e, dell’altra parte, la costa. 
   Il terzo giorno ci trova stanchi ma con ancora la voglia di vedere più cose possibile. Dedichiamo la mattina a Sintra, dove arriviamo in treno. Piccola cittadina a ovest di Lisbona, si sviluppa lungo i fianchi di una montagna. Sin dal XIX secolo sede dei re portoghesi, ci colpisce subito per la tranquillità: ha tutta l'aria di un posto incantevole, pronto a sorprenderti ad ogni angolo. Per visitarla bene occorrerebbero due giorni, noi abbiamo mezza giornata. Il momento delle scelte stabilisce la nostra meta: Quinta da Regaleira
   La Quinta ci da il benvenuto come se fossimo all’interno di una fiaba. Il palazzo, costruito da un architetto italiano, è circondato da un bellissimo parco, che conferisce a tutta la situazione un’enfasi non da poco. Cominciamo il giro dal palazzo, le stanze si susseguono per 3 piani. Dai soggiorni alle sale dei banchetti è evidente la ricchezza della costruzione. Le pareti addobbate da strucchi e pitture, presentano alcune tele raffiguranti i disegni tecnici, i dettagli schizzati completamente a mano dall’architetto Manini. La stanza che più ci colpisce è la libreria.
Uno studio apparentemente banale, le cui pareti sono interamente formate da scaffali di libri. Sembra di stare all’interno di una scatola. Il pavimento, in legno, ricoperto da una moquette rossa, riserva una inaspettata sorpresa: ci troviamo come su un tappeto volante, il pavimento galleggia. Tra il pavimento e le pareti è posta una lastra di vetro, uno specchio che crea una dimensione illimitata, il gioco di immagini è un continuum tra realtà ed illusione che circonda la base della scatola in cui ci ritroviamo. Fuori dal castello ci aspetta un’escursione tra grotte, castagni e torri. Il resoconto è una totale immersione nella natura, una busta di castagne raccolte sul percorso, una serie infinita di gradini per uscire da dei bellissimi pozzi stile Reame boscoso direttamente da Il signore degli anelli, tante paperelle e 5 ore di camminata.
   Nel primo pomeriggio il treno ci riporta a Lisbona. A due cose abbiamo deciso di non rinunciare, nonostante le gambe a pezzi: salire per il tramonto al Castelo de São Jorge trovato chiuso due giorni prima e visitare le Ruinas do Carmo. Cominciamo dalle Ruinas. La più grande chiesa gotica dell’epoca, nonché forte testimonianza del terremoto che colpì Lisbona nel 1755. La chiesa è in realtà una rovina semi distrutta, manca dell’intera copertura. Tutto ciò che costituisce la chiesa è l’ossatura, una processione di archi gotici, ancora interamente posizionati uno dietro l’altro, per 3 navate. Il nostro tetto è il cielo di Lisbona. Ciò che ci circonda è la pietra, una costruzione ricca di identità sebbene messa duramente alla prova dalla storia della città. E’ forse il monumento più affascinante e toccante che abbiamo avuto la fortuna di vedere.
   Il Castelo de São Jorge è il saluto che Lisbona ci concede. Una edificazione medievale, povera nel contenuto poiché costituita solo da alte mura difensive e torri. La sua funzione di controllo su tutta la città ci permette di godere di una vista mozzafiato. Ripercorriamo con lo sguardo tutta la strada che abbiamo fatto. Creiamo con l’immaginazione una sorta di mappa, inserendo i ricordi più belli dei giorni precedenti. Restiamo molto tempo a guardarci attorno, stupendoci soprattutto delle distanze percorse senza rendercene conto.
   Il finale perfetto di una passeggiata durata 3 giorni. Il panorama dal castello è la nostra cartolina, il nostro arrivederci ad una città che difficilmente dimenticheremo, a giorni di stanchezza misti a panini, vino, sardine e tanto, tanto sole!

martedì 14 ottobre 2014

Oporto e le sponde del Douro

   Pioveva quella mattina a Oporto, mentre prendevamo un pessimo cappuccino alla stazione Campanhã in attesa del nostro treno per Lisbona. Avevamo tutti il timore di aver già visto il meglio di quanto ci si potesse aspettare dal Portogallo. Alla pioggia, quindi, si associava una sorta di dispiacere: lasciavamo una città alla quale non avevamo chiesto molto, ma che ci aveva regalato moltissimo.
In cima alla Torre dos Clérigos
   Ci eravamo arrivati due giorni prima, zaini sulle spalle e scarpe comode. Il primo contatto fu con il tassista che ci portò all'ostello. Come spesso mi è capitato, con lui si è finiti a parlare di cibo. Morale: a Oporto bisognava assaggiare la francesinha e il bacalao. La prima è una pietanza formata da tre tipi diversi di carne rossa messi uno sull'altro, poggiati su una fetta di pane, il tutto ricoperto da formaggio dolce. La seconda è baccalà. 
Capela Almas (con azulejos)
Cartina in mano si comincia a girare con il solo obbiettivo di perdersi e ritrovarsi tra quegli edifici di pietra e azulejos. È così che ci si ritrova tra gli artisti di strada in Rua Santa Catarina, al Mercado do Bolhão e alla Torre dos Clérigos, dalla quale si ha tutta la città ai propri piedi. 
   Avvicinandosi sera, cominciamo a scendere lungo i vicoli che portano alla Ribeira, la sponda nord del fiume Douro, piena di ristoranti, molto attrattiva e molto turistica: si trova a pochi passi dal ponte Luis I, opera di Eiffel, sul fiume pieno di barche proprietà delle aziende vinicole, che portano giù lungo il Douro le loro botti piene di mosto lavorato nell'entroterra, da riporre nelle cantine della sponda sud del fiume perché possa maturare.
   Non potevo lasciar scappare l'occasione di assaggiare qualche vino: in generale, tanto i vini rossi come i bianchi, hanno una gradazione molto alta, superiore ai 18% gradi, per lo più dolci, simili al passito. Come promesso al tassista, la francesinha sarebbe stata la mia cena: squisito mattone di carne, niente da dire. Ma è stato quello il momento in cui ho capito a cosa serve un vino tanto forte. 
   Il giorno successivo ci si alza presto per raggiungere una località fuori città, Matosinhos, verso ovest, di fronte all'oceano Atlantico: frazione di Oporto, è popolata soprattutto da pescatori. Il motivo che ci porta fin lì è l'opera di un architetto, Álvaro Siza, il quale ha ricavato delle piscine sulle scogliere che danno sull'oceano.
Piscinas das Marés
Scopriamo dispiaciuti che le Piscinas das Marés sono purtroppo chiuse. Ci consoliamo con quel che si vede dall'esterno e con una passeggiata sulla spiaggia.
Ponte Luis I
Il resto del pomeriggio e la sera li dedichiamo alla sponda sud del Douro. Il miglior modo per raggiungerla è passare sul ponte di Eiffel, oggi sfruttato da metropolitana, da ciclisti e pedoni. Dopo aver visitato la Sé Catedral di stile romanico, ci incamminiamo sul ponte rimanendo affascinati dalla vista panoramica che offre; ma le fredde folate di vento e un temporale in avvicinamento ci consigliano che è il momento di allungare il passo verso la teleferica. Con essa raggiungiamo subito Cais de Gaia, luogo ideale per andare alla ricerca di aziende vinicole, le quali dispongono di spazi commerciali dove fare un ottimo aperitivo.
Come promesso al tassista, è l'ora del bacalao: freddo, con olio d'oliva e qualche spezia, è tra le cose migliori che abbia mai assaggiato. Lo innaffio con un po' di vino bianco, mentre una cantante-ballerina locale ci porta l'atmosfera del Fado.
   Non avevamo fatto programmi su come passare la serata, quindi abbiamo continuato a perderci per le stradine della Ribeira e siamo risaliti fino ad una piccola piazza dove ragazzi e ragazze di una qualche scuola di ballo facevano una serata all'aperto con musica anni '30. Buttati su dei grandi cuscini di sabbia ci siamo goduti quell'allegria collettiva, mix di gente di quartiere, turisti, studenti e bidoni di sangria.
Il ponte Luis I e la Ribeira visti dalla sponda meridionale del Douro.
   Non ci aspettavamo molto da Oporto, ma ne siamo rimasti affascinati. L'ultima cosa che gli abbiamo chiesto è stato un cappuccino per la colazione: l'unico difetto in due giorni memorabili.

venerdì 20 settembre 2013

Η μονή Άγιου Διονυσίου - Athanasios e Charitos

Penisola del Monte Athos, terzo "piede"
(quello più a est) della Calcidica.
   Una colazione con pane e acqua intorno alle 8 del mattino, dopo essere stato per qualche minuto alla messa che andava avanti sin dalle 3:30 di notte, ha chiuso la prima parte della mia permanenza nella penisola del Monte Athos. Da lì a poco infatti un furgone ci avrebbe dato uno strappo per tornare a Kariès, la capitale sulle montagne. Saluto il monastero Σταυρονικήτα dispiaciuto per il poco tempo che gli ho dedicato, ma allo stesso tempo felicissimo di averlo incontrato sulla mia strada, anche solo quel giorno sarebbe bastato per dare un senso ai chilometri fatti a piedi e in autobus.
   Assieme a Javier e Luo salutiamo anche la costa orientale, il nostro programma dice che la prossima destinazione è Η μονή Άγιου Διονυσίου, Monastero di San Dionisio, sulla costa occidentale a sud di Dafni. Poco prima delle 9 siamo a Kariès. Abbiamo quasi due ore prima che un autobus ci porti di nuovo a Dafni, decidiamo di fare un giro. Prima tappa: un forno. L'odore di koulouri ci guida lungo quelle vie strette e polverose, con gatti e cani che ad ogni angolo pregano anche loro per un pezzo di pane. Un cane ci adotta, ci fa Cicerone per un po', almeno fino a che non ottiene la sua ricompensa: mezza focaccia con patate del giorno prima. Ci concede una foto tutti insieme e si dilegua alla ricerca di nuovi pellegrini. 
   Visitiamo velocemente un monastero molto grande ma in rovina, di San Paolo se non ricordo male, che è circondato dal bosco, poco fuori Kariès e ritorniamo in piazza per prendere posto sull'unico autobus a nostra disposizione. Scendiamo a Dafni e aspettiamo un'ora: l'unico modo, oltre a piedi (l'opzione è subito scartata!), per raggiungere il monastero di San Dionisio è via mare. 
   Sono da poco passate le due, la nave ci lascia al nostro molo. Bisogna salire per duecento metri per raggiungere l'entrata del monastero. Siamo assieme ad un altro gruppo di pellegrini, in tutto quindici persone, per lo più greche. Ci accolgono in un'ampia sala con un dolce e un bicchiere di tsìpouro: questi monaci si fanno voler bene. Il programma prevede una messa fino alle 17, la cena, un'altra ora di messa e buona notte. 
   Decidiamo che il programma non fa per noi, quindi facciamo un giro nei dintorni: campi coltivati, ciliegi, viti, mare blu e limpido a ovest una gola altissima a est. Torniamo tra le mura in tempo perché un signore, Athanasios, assiduo frequentatore del monastero, ci parli un po' degli affreschi e della storia di quel posto. Per ultimo decide di farci visitare il cimitero, esterno alle mura. Non ho mai trovato particolarmente interessante un cimitero, ma lo seguo in segno di rispetto. Ho fatto bene. Passiamo per una casupola dietro la quale si trova un piccolo giardino con delle tombe interrate. Prima di tornare indietro Athanasios apre una piccola porta della casupola: "Ecco che fine fanno i monaci!"... Uno sull'altro, con in fronte scritto il proprio nome, stavano i teschi dei monaci che negli anni avevano consegnato la propria vita alla preghiera tra quelle mura. Preso in contropiede decido di farmi una risata. Prima di tornarmene fuori da quel cimitero, un'altra casetta nel lato alto del giardino cattura la mia attenzione: avvicinandomi mi rendo conto che dalle finestre non uscivano rami o legna da ardere, come da lontano mi era sembrato, ma spine dorsali e femori. Si tratta dell'ossuario. Athanasios conferma, i teschi da una parte, gli scheletri dall'altra. Bene.
   Aspettiamo la cena seduti nella chiesa, edificio geometricamente centrale del monastero. Alle 17 in punto i monaci invitano i pellegrini a sedersi in una sala poco distante: quella sera la cena era fatta di olive, pasta con del sugo e cocomero per dessert. La fame mi fa mangiare di fretta e questo si rivela una gran fortuna: dopo cinque minuti scarsi i monaci si rialzano per rientrare in chiesa e continuare la messa. Gli altri pellegrini seguono, io metto delle olive in tasca ed esco, del cocomero potevo fare a meno.
   Si sta in chiesa un po'. Intorno alle 19 vado a prendere posto su una panca in un balcone che si affaccia sul mare, da dove vedere il tramonto: quel sole visto sorgere da un altro monastero stava per lasciare spazio al buio.
Altri pellegrini hanno avuto la mia idea, tra cui Athanasios, che ora mi parla un po' di lui: mi spiega di essere legato a quel posto per via dello zio di suo padre, Athanasios anche lui, monaco in quel monastero molto tempo prima. Parlo con altre persone, chi dal Peloponneso, chi da Salonicco, hanno tutte voglia di purificare la propria condotta con la loro presenza lì. 
   Sono l'ultimo a lasciare il balcone e vado a letto, è quasi mezzanotte. Quasi tre ore e i monaci cominceranno nuovamente la liturgia, come ogni notte, da secoli. La nave che ci riporterà a Salonicco partirà da Dafni a mezzogiorno, noi lasceremo il monastero alle 9. 
   Alle 7:30 i monaci organizzano una colazione e alle 8 riprendono la liturgia. Decido di scendere in chiesa alle 8, per ascoltare ancora una volta quei salmi, ma prima passo per il balcone, ho bisogno di aria per svegliarmi davvero. Quando sto per rientrare un monaco esce anche lui sul balcone: 
- Che fai ancora qui? 
- Sono pronto per venire in chiesa...
- Come ti chiami?
- Freedom. Per via dei miei due nonni: Free sta per Francesco, dom sta per Domenico.
- E quindi festeggi due volte l'onomastico?
- No, mai.
- Ma come?, è importantissimo, come fai a non farlo?, Devi farlo... Sei cattolico?
- Non sono molto religioso.
- Ma come?, avvicinati alla preghiera, la religione conosce ogni mistero della vita, è una guida, è esperienza... Non mi hai ancora chiesto come mi chiamo.
- Come ti chiami?
- Charìtos. Sono qui da 25 anni...
   Nelle sue parole avverto più rimpianto che speranza, ma decido di non approfondire, il mio greco non me lo permetterebbe. Io continuo a guardare il mare sotto di noi e lui, che accarezza pensieroso la propria barba. 
- Ascolta Freedom, senti questi battiti?, un monaco sta battendo un pezzo di ferro su una tavola di legno, è la messa che ricomincia.
- Ho sentito, andiamo.
   Entro con lui in chiesa, mi siedo su un lato. I miei amici mi raggiungono. Dopo un'ora scendiamo giù al molo. Mentre aspetto la nave saluto il monastero alle mie spalle chiedendomi come sia possibile che ogni giorno, da secoli, quelle persone trovino la forza di fare sempre le stesse identiche cose pur sapendo dove comunque finirà il proprio teschio: è la fede, grande amore o pura pazzia.






















Μόνη Άγιου Διονυσίου, 17/08/2013

lunedì 16 settembre 2013

Al centro delle Cicladi

Paros, isola dell'arcipelago delle Cicladi.
   Nell'agosto del 2012 con i miei colleghi di neogreco della Sapienza abbiamo avuto la fortuna di poter partecipare ad un seminario di traduzione di due settimane sull'isola di Paros, isola centrale nell'arcipelago delle Cicladi. Fummo ospitati dalla Casa delle Letterature che si trova a Lefkes, piccolo paese tranquillo nell'entroterra, un tempo capitale dell'isola. 
   Prima parlavo di fortuna, perché in effetti si è trattato di un'esperienza indimenticabile. Soprattutto per il fatto di averla condivisa con altre dodici persone in gamba. Dopo il seminario mattutino, tutti a cucinare e poi a girare l'isola. A cominciare dalla spiaggia rossastra fatta di piccole conchiglie di Logaràs, fino a quella caraibica di Chrysì Aktì. La tranquillità di Mòlos, il vento di Andìparos, i ristoranti di Piso Livadi, le stradine di Parikià e i locali di Nàoussa. La Via Bizantina poi, antica strada in pietra che collegava tutti i centri economicamente e religiosamente più importanti. Lefkes e la sua notte di festa finita a vedere il sole spuntare da dietro Naxos seduti in un campo tra erba, pietre, asini.
   Due settimane piene di vita. Il mio rientro era un po' anticipato rispetto agli altri, quindi la sera del 25 agosto la mia nave partiva da Parikià per arrivare a notte fonda ad Atene da dove al mattino avrei avuto l'aereo. Lasciando i miei amici al porto e vedendo Paros allontanarsi dal ponte della nave Blu Star Delos sentivo di dover scrivere quello che provavo, per cercare un po' di definirlo. Avevo un piccolo pezzo di carta, uno scontrino, cominciai a scrivere. Quando misi il punto finale mi resi conto che aveva la forma di una poesia a versi liberi. 

Blu Star Delos

Alle spalle Paros                                        
Spiaggia di Mòlos
accende le sue prime luci 
mentre il megafono
regala una risata:
"Στο Πειραιά στις 11:44".

Metto insieme solo ora
ricordi, a dettar loro il tempo
è una nave, oggi.

Lascio alle spalle quest'isola 
di incontri interessanti
di amicizie appaganti, 
unico rimpianto
non averne goduto la vetta più alta.

Con me uno zaino 
di profumi e conchiglie,
La vetta più alta
di scarpe e mutande,
di aspettative e ricordi.

Lascio alle spalle quest'isola
anche se, in realtà, 
sembra essere lei
ad abbandonare me.

Paros, ore 20:00, 25/08/2012







sabato 14 settembre 2013

Η Μονή Σταυρονικήτα – Una finestra sull’Egeo

Calcidica, regione della Grecia nord orientale:
la penisola del Monte Athos è la regione più a est
  Dopo un tentativo disperato mi dicono che sì, anche io posso andare sul Monte Athos. Non ero sicuro di volerlo visitare: il consiglio di un amico, l’occasione irripetibile, la voglia di vedere questo posto proibito alle donne e la curiosità di capirne la ragione mi hanno fatto cambiare idea.
   Si parte presto. A Ouranopoli ci danno il permesso di imbarcarci, prima di salire sulla nave mi fanno cambiare: solo pantaloni lunghi. Anche ad agosto. Nessun problema, mi cambio in un furgone. Via. Arriviamo a mezzogiorno a Dafni, principale porto della penisola. Siamo in nove, divisi in tre squadre. Con me un madrileño, Javier, e un pechinese, Luo. Le squadre si dividono, ognuna visiterà diversi monasteri. Il nostro programma dice che da Dafni, sponda occidentale, dobbiamo dirigerci al Monastero Stavronikita, sponda orientale. Bene. Anzi, male. Con la nave non è possibile. L’unico autobus che fa quella strada è già partito. Le altre due squadre sono già via. Taxi introvabili… Decidiamo di sederci ad un bar e mangiare: non so per quale ragione ma ogni volta che mi si complicano i piani do la priorità allo stomaco. 
   Il sole di metà agosto e di mezzogiorno ci fa capire che andare a piedi non è una buona idea: 16 chilometri con zaini sulle spalle, poca acqua, quasi 40 gradi. Ci incamminiamo: le pessime idee hanno sempre un loro fascino. Salvo rivelarsi pessime idee. Dopo un’ora di bestemmie una casetta sul ciglio della strada accanto all’entrata di un monastero ci sembra una manna scesa dal cielo. Ci fermiamo all’ombra in attesa di una macchina, un taxi, un autobus, un qualcosa su quattro ruote che ci porti per lo meno a Kariès, capitale della penisola del Monte Athos, sulle montagne. Javier sembra il più inquieto, è il caposquadra, conosce il greco meglio di me e Luo, che invece attende tranquillo che la situazione migliori. Dei passanti ci danno un numero di un taxi. Javier telefona e ritelefona: è fatta. Aspettiamo ancora mezzora, il taxi arriva. I chilometri in salita fino a Kariès ci convincono di quanto fosse pessima l’idea di andare a piedi. Arriviamo alla piccola capitale intorno alle sedici. Compriamo dell’acqua, qualcosa da mangiare. Su una panchina decidiamo cosa fare: la priorità è arrivare al monastero prima che faccia buio, da lì dista alcuni chilometri, ma sono in discesa. Cartina alla mano, cominciamo di nuovo a camminare.
   Il nostro greco, in generale non ancora molto sicuro, non ci permetteva lunghi discorsi. Sul finire di quella lunga giornata le parole erano rare, anche per la stanchezza. Era la mente a fare i suoi discorsi: “Ma che cazzo ci sono venuto a fare io qui?, polvere, caldo, fatica, niente ragazze… e loro vogliono pure venirci qui! A fare cosa poi? Vai a capirle…”.
Scendendo verso la costa orientale della penisola ammiro a sud la cima maestosa del Monte Athos, attorno a me solo castagni: sembra di stare nella mia Calabria. Dopo più di un’ora e mezza eccoci arrivati: il monastero è un piccolo gioiello incastonato nella tranquillità, duecento metri sul mare, duecento metri dal bosco. 

   I monaci sono in chiesa, è l’ora della messa serale. Entriamo anche noi in chiesa, assetati e affamati. Recitano parole a me incomprensibili nel buio di quelle mura affrescate con la vita dei santi. Non resisto più di venti minuti: tra stanchezza e fame potrei nominare invano qualcuno a loro caro. Mi faccio un giro attorno al monastero: però, che natura incontaminata! Mare, montagna, tranquillità. Un monaco ci invita a rientrare in chiesa: tiro fuori le ultime briciole di pazienza per mostrare un minimo di rispetto. Sono le sette di sera, finisce la liturgia. Sono ancora fermo con il mio zaino all’entrata. Un monaco ci fa segno di avvicinarci, ci indica una porta: ci offrono la cena. Entro, riconosco i volti di altri pellegrini visti prima durante la funzione, mi siedo vicino a loro. Davanti a me un piatto abbondante di fagioli con verdure varie. Prego. Prego perché la preghiera pre-pasto finisca il più in fretta possibile. Ringrazio Dio e mi metto all’opera.
   Un lungo respiro dopo l’ultimo boccone chiude la mia cena. Un monaco ci indica il nostro alloggio, saliamo: ultimo piano, con le finestre sul mare Egeo che guardano a oriente, all’alba. Sotto di noi un burrone di duecento metri e il mare… il mare, la montagna, la tranquillità, cibi sani, niente donne… comincio a capirli, questi monaci. 
   Vado a letto, voglio svegliarmi presto, l’alba dalla mia finestra sull’Egeo sarà indimenticabile. (Secondo giorno)



Monastero Stavronikita, Monte Athos, 16/08/2013

venerdì 13 settembre 2013

Alba Fucens





    L’aria a Massa d’Albe ha qualcosa in comune con quella del mio Aspromonte. Anche la terra, mi sembra di conoscerla, pervasa da una fresca umidità che ti aspetti da un momento all’altro un fungo lì pronto a riempirti lo sguardo di entusiasmo e i polmoni di ricordi.


   Alba Fucens è poco più in alto rispetto al paese, incastonata in una leggera gola, tra rovi carichi di more.
   Ormai consumata dal tempo si lascia osservare silenziosa, come aspettasse un tuo parere.  Ha in qualche modo bisogno del tuo stupore quando te la ritrovi lì, pietrificata in mezzo alla natura, sembra quasi te lo chieda proprio con quel silenzio.



   “Guardami, percorri le mie strade, metti insieme un’immagine di quello che ero col poco che ormai sono. Sali per la collina, entra nel mio teatro: a tenerlo vivo sono ora ragazzi che lì si alienano un po’ dal mondo, con  chitarre e vino. Ridiscendi la collina e fermati a metà strada. Adesso che hai un’idea di quello che fui alza lo sguardo verso coloro che sanno tutto di me, i monti Velino e Cafornia: immagina con i loro occhi le vite passate su questa valle. La tua idea di me sarà autentica ora, chiudi gli occhi,  fai un respiro ed io, Alba Fucens, farò sempre parte dei tuoi ricordi”.

Massa d’Albe, 07/09/2012

L'Aquila puntellata

   Un concerto dei Brokenspeakers ci ha dato l’idea di venire a passare un giorno intero in questa città. Il programma è vago: partiamo presto da Roma, giriamo per l’Aquila fino a sera e poi concerto rap.
   A quasi un anno dal terremoto nessuno tra me, er Ciccio per gli amici ma Alessandro per l’anagrafe, Matteo, Nico e Salvo, ha visto questa città, solo immagini su internet ci hanno permesso di farcene un’idea.
   Lasciamo la macchina vicino la Fontana Luminosa e saliamo al castello. Tanta gente passeggia lassù, facile fare conoscenze. Un signore anziano ci viene incontro dopo aver fatto almeno quattro volte il giro attorno al castello. Lui curioso di noi, noi curiosi e basta. Dopo cinque minuti si parla come vecchi amici, gli aquilani sono persone accorate, dice, volendo dire sia addolorate, come ogni dizionario recita, sia di cuore, come i suoi gesti lasciavano intendere. Il signor Gigi Malavolta, se la memoria non mi inganna si chiama così, si considera poeta beyond, al di là di ogni espressione poetica già percorsa. Ci lascia con una sua massima, secondo lui forma corretta del proverbio La lingua batte dove il clito ride: “La lingua batte dov’è il clitoride”.
   Il pomeriggio lo passiamo a vedere queste strade deserte che sanno ancora di polvere. Non sono che le sei, sembra notte fonda. Al vuoto della Casa dello studente facciamo una lunga sosta. Nessuno di noi ha voglia di parlare.
   È ancora presto per il concerto, così la tentazione di entrare nella Zona rossa ha  il tempo di crescere e portarci dove non possiamo. Nella piazza davanti al Municipio ci guardiamo attorno senza capire a che distanza da noi sono gli edifici, mettiamo le mani avanti per cercare ostacoli, sentiamo ogni nostro passo, vediamo solo il cielo pieno di stelle sopra di noi. Per la prima volta in vita mia ho respirato il buio ed il silenzio, insieme.
   Lasciamo riposare i nostri pensieri seduti a cerchio in mezzo al Corso, sembra di fare occupazione al liceo.
   Anche il concerto finisce, come il vino che avevamo con noi, ci fermiamo solo davanti a una bottiglia di Centerbe, ci stenderebbe.


L’Aquila, 04/02/2010